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L’eredità di Bisanzio nelle biblioteche dei Medici
(dal saggio di David Speranzi)

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Nel 1453 i Turchi conquistarono Bisanzio: eppure, se l’impero non si salvò, conobbe una salvezza la cultura bizantina.
Per questo salvataggio, uno dei personaggi-chiave fu Manuele Crisolora che insegnò per tre anni a Firenze, tra il 2 febbraio 1397 e il 10 marzo 1400, invitato a leggere greco allo Studio dal cancelliere della Repubblica Coluccio Salutati (1331-1406). Gli anni fiorentini di Crisolora avrebbero segnato il deciso inizio del processo di rinascita delle lettere greche in Occidente dopo secoli di assenza. Alla sua scuola appresero il greco, tra gli altri, coloro che sarebbero diventati i primi grandi traduttori dell’Umanesimo. Per esempio Iacopo Angeli da Scarperia (ca. 1360-1410/1411) e Leonardo Bruni (1370-1444). Si intraprese, inoltre, attraverso emissari, sia da parte di Coluccio sia da parte di altri personaggi, la ricerca di codici greci in Oriente.
E, tuttavia, l’apertura di una via che conducesse al greco non fu un evento improvviso ma, anzi, in epoche precedenti, essa fu più volte cercata, pazientemente perseguita, tuttavia gli interessi furono per lo più di carattere grammaticale, teologico e scientifico; ben diversi da quelli che, con altri intenti e metodi, furono alla base della riscoperta quattrocentesca del greco. Essa trova le sue radici nell’esperienza culturale di Francesco Petrarca che, com’è universalmente noto, desiderava apprendere il greco e che, tuttavia, non raggiunse mai il suo scopo. Leonzio Pilato, un greco di Tessalonica, eseguì per lui un saggio di traduzione dei primi cinque libri dell’Iliade. In seguito il poeta ebbe occasione di incontrare Giovanni Boccaccio e nacque quindi il progetto di attirare Leonzio in Toscana, allo scopo di fargli tradurre per intero i poemi omerici e Leonzio all’inizio dell’estate del 1360 fu a Firenze dove, stipendiato dalla Signoria, tenne lezioni su Omero e su Euripide (il Laur. Plut. 31.10 è da lui annotato). La sua improvvisa partenza da Firenze e, forse, l’assenza, nel suo metodo didattico, di una solida base grammaticale fecero sì che il suo insegnamento non lasciasse frutti durevoli.

Ecco perché il triennio fiorentino di Crisolora può essere assunto, anche se convenzionalmente, come il punto di svolta di un monumentale “spostamento” del sapere che, lungo il corso di tutto il Quattrocento, vide il patrimonio culturale sino a quel momento conservato e prodotto a Bisanzio trasmigrare verso l’Italia dell’Umanesimo. Una civiltà che viveva il suo tramonto affidava gran parte della sua eredità ad un’altra che, invece, viveva il suo pieno rigoglio e che, da qualche tempo, per motivi culturali, religiosi e politici, andava cercando l’antico. Ne scaturisce una trama pressoché infinita di storie che hanno come protagonisti i libri e quanti, ad essi, legarono la loro esistenza.
Cosimo il Vecchio per sé, non acquistò mai codici greci – fatta salva, forse, un’unica eccezione – ma legò indissolubilmente il proprio nome alla straordinaria biblioteca di Niccolò Niccoli (ca. 1364-1437) e alla collezione del convento domenicano di San Marco. Cosimo riuscì, nel 1441, a ottenere che gran parte dei libri di quest’ultimo fossero assegnati al convento di San Marco. Niccoli non andò mai molto oltre nell’apprendimento del greco, ma la passione bibliofilica e la suggestione esercitata dall’antichità lo avevano indotto a raccogliere un buon numero di manoscritti greci, in alcuni casi di straordinaria importanza e di altrettanto straordinaria bellezza.
Il filologo ateniese Demetrio Calcondila dal 1475 occupò la cattedra di greco nello Studio fiorentino. Tra la fine degli anni Settanta e i primissimi anni Novanta del Quattrocento, il calligrafo cretese di origini italiane Demetrio Damila, spesso sotto la supervisione di Calcondila, produsse un considerevole gruppo di codici, tutti scritti su pergamena, che sarebbero andati ad arricchire gli scaffali della libreria medicea. Dietro questi eleganti manufatti librari, perfettamente conformi al gusto umanistico, si celano spesso attente ricerche dei modelli da utilizzare e una cura riservata al testo che, sia pur per forza di cose lontana dai moderni criteri della critica testuale, li rende delle vere e proprie edizioni, realizzate ricorrendo a modelli diversi e mettendo in atto operazioni di correzione.

Alla politica del codice pazientemente cercato e appositamente commissionato, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta del Quattrocento si affianca, nell’ampliamento del «fondo greco» della libreria medicea privata, quella degli acquisti «in blocco» di gruppi di codici già appartenuti a privati che l’occasione offriva a Lorenzo. All’inizio degli anni Ottanta Lorenzo poté assicurarsi, inoltre, gran parte dei libri greci che erano stati di Francesco Filelfo, il quale era stato uno dei primi umanisti a recarsi in Oriente per apprendere il greco, tra il 1420 e il 1427, a Costantinopoli. Dalla capitale aveva riportato un gran numero di codici greci e poi, nel corso della sua esistenza, non aveva mai cessato di incrementare la propria biblioteca, sia attraverso acquisti, sia mantenendo presso di sé, per periodi più o meno lunghi, copisti greci (a lui appartenne il Laur. Plut. 32.1. Alla morte del Filelfo, gran parte dei suoi libri presero la via che li avrebbe condotti a Firenze e nella libreria medicea privata.
Alla fine degli anni Ottanta, matura una nuova fase nella politica di ampliamento della sezione greca di quest’ultima collezione, che prevede esplorazioni sistematiche di altre raccolte italiane e delle biblioteche dell’Oriente. La presenza a Firenze di un bizantino come Giano Lascari (ca. 1445-1534), che aveva forse condiviso le aspirazioni di Bessarione alla creazione di una biblioteca che potesse conservare la memoria dei greci, riusciva quanto mai opportuna. Tra il 1490 e il 1492, Lascari venne inviato per due volte in Oriente, con lo scopo di cercare manoscritti per la libreria privata dei Medici, e anche di portare in Italia promettenti giovani greci che, debitamente istruiti nel greco e nel latino, potessero diventare i migliori ambasciatori dell’ellenismo in Occidente. Al definitivo ritorno di Lascari a Firenze affluiscono nella biblioteca privata dei Medici circa duecento manoscritti greci, fasci di libri dai quali Giovanni Pico della Mirandola dichiara di non riuscire a districarsi.
Il sogno di avere a portata di mano un’altra grande biblioteca che, a Firenze, accanto a quella di S. Marco, custodisse i discorsi e la saggezza degli antichi sarebbe stato momentaneamente interrotto dal crollo del regime mediceo e dalla calata di Carlo VIII. Per portarlo a termine, sarebbero occorsi due pontefici e un granduca: il cardinale Giovanni, futuro Leone X (1475-1521), che recuperò i libri della collezione; Clemente VII (1478-1534), che riportò i libri a Firenze e commissionò a Michelangelo la costruzione della biblioteca; Cosimo I, che dotò la libreria di molti codici sino a quel momento conservati a S. Marco e la condusse fino all’apertura al pubblico, l’11 giugno 1571: si chiudeva la storia cominciata quasi due secoli prima.