» Introduzione

» Crediti

Dallo scaffale mediceo della poesia greca antica
(dal saggio di Fausto Montana)

» » »

Nel catalogo della Biblioteca Medicea Laurenziana troviamo i manoscritti greci di poesia profana antica, appartenuti a Lorenzo e ai suoi discendenti: un’ottantina e più di codici, fra bizantini e rinascimentali, databili in un arco temporale compreso fra il X e il XVI secolo, in gran parte rappresentativi della parabola della produzione poetica greca oggi conservata, da Omero all’epos tardoantico, passando per Esiodo, Teognide e Pindaro, i massimi autori del teatro attico tragico e comico del V secolo a.C. (Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane), la grande poesia ellenistica (Apollonio Rodio, Teocrito, Arato e Nicandro, ma anche Licofrone e i bucolici “minori”), la poesia didascalica di età romana, l’epigramma e i Carmina di Gregorio di Nazianzo. La committenza medicea si rivela animata da un intento di esaustività del reperibile, come a scongiurare vuoti e lacune nello “scaffale”. Dei vuoti, era inevitabile, sono rimasti: ma quell’orientamento ha conseguito il risultato di costruire un patrimonio rilevantissimo per quantità e valore, che fa dell’odierna Biblioteca Laurenziana una delle istituzioni più prestigiose nel campo della conservazione dei beni librari concernenti la civiltà greca antica.
Un gruppo di codici prodotti in carta occidentale è riferibile all’attività di uno scriptorium greco di incerta localizzazione (fra le ipotesi Costantinopoli, la Sicilia e la Puglia) al cui interno verso la fine del XII secolo operavano un copista di nome Gioannicio (Ioannikios) e un suo collega anonimo di origini probabilmente occidentali. Non si può escludere che questi sia da identificare con Burgundio da Pisa (1110-1193), che alcuni di questi codici utilizzò e disseminò di annotazioni in latino. Da questo vivace e versatile scriptorium proviene il Laur. Plut. 32.9.

Nei due secoli compresi grossomodo fra la conquista araba dell’Africa bizantina nel 641 (che segnò la trasformazione di fondamentali centri di cultura greca, come quello millenario di Alessandria d’Egitto) e la fine dell’iconoclastia (843) pare si sia prodotta una marcata compressione dei processi di copia, circolazione e trasmissione dei testi antichi. In questo periodo, nel solco della selezione avviata con i “canoni” di autori stabiliti fin dall’età ellenistica e specialmente sotto l’impulso delle esigenze di lettura nell’ambito dell’istruzione scolastica, si accentuarono e spesso giunsero a compimento i destini negativi di svariate opere della letteratura greca: cosicché al termine del processo alcune tradizioni dirette che erano rimaste dimenticate finirono per esaurirsi irrimediabilmente.
Già almeno dai primi decenni del secolo IX, in alcuni centri di copia si andava diffondendo una scrittura integralmente corsiva, detta “minuscola”, ispirata a grafie in uso in contesto privato e documentario, che garantiva processi di trascrizione più rapidi e una migliore economia dello spazio della pagina. Manoscritti letterari in maiuscola, antichi di secoli, furono copiati e traslitterati ed ebbe così inizio una nuova fase nella storia tradizionale delle opere, che a molte di loro avrebbe garantito la sopravvivenza fino ai giorni nostri. Il contesto di questa rinnovata produzione non ci è chiaro, ma non sfugge la concomitanza del fenomeno con altri evidenti segni d’interesse per l’antica civiltà letteraria, come le attività di gruppi eruditi raccolti a partire all’incirca dalla metà del secolo a Costantinopoli attorno a figure dalla cultura enciclopedica del tipo di Leone il Matematico e del patriarca Fozio. Pochi decenni più avanti, la vivace bibliofilia di Areta (circa 860-935), arcivescovo di Cesarea in Cappadocia, si espresse nella ricerca e nella committenza di codici di grande pregio di prosatori greci antichi, alcuni dei quali si sono conservati e testimoniano i suoi interessi anche grazie ai commenti che egli stesso annotò nei margini.

Durante la Rinascenza “comnena” Tzetzes ed Eustazio, di cui il Laur. Plut. 59.2 è un autografo, sono rappresentativi non di una filologia dalle qualità folgoranti, bensì di una erudizione portata a reperire e amalgamare grandi quantità di dati in mastodontiche compilazioni, indubbiamente preziose per lo studioso moderno: tanto per l’interpretazione dei passi letterari interessati e per la storia dell’esegesi antica, quanto come miniera di una miriade di testimonianze, frammenti e informazioni altrimenti perduti.
Nella Rinascenza “paleologa” si assiste a un dissotterramento di tradizioni rimaste silenti, e non invece (o non soltanto) a una propensione congetturale sbrigliata e disinvolta; a questo lavoro di dissotterramento si deve riferire la vasta attività critico-testuale di personalità come Massimo Planude, Manuele Moscopulo, Tommaso Magistro e Demetrio Triclinio. Il monaco Massimo Planude (circa 1255-1305), uomo di vasta cultura, mise a frutto la sua buona conoscenza del latino per realizzare traduzioni di opere greche, come la Geografia di Claudio Tolomeo, che furono tra le prime a circolare in Occidente; così pure volse in greco, fra l’altro, il Somnium Scipionis ciceroniano, il De bello Gallico di Cesare, le Metamorfosi e le Heroides di Ovidio.