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Leon Battista Alberti, NEMICO, Intercenali, III, 4

Al tempo dei nostri antenati (Cicerone) è stato tramandato che, in una battaglia navale, parecchi nobili pisani erano stati catturati dai Genovesi, e che questi, dopo la vittoria, chiesero al loro senato di pronunciarsi intorno al trattamento da riservare a quel gran numero di prigionieri. Fra i senatori alcuni erano del parere che i nemici catturati dovevano essere ammazzati dal primo all’ultimo (Livio), e citarono in appoggio la celebre massima con cui Teodecto [ossia: Teodoto] indusse a far massacrare Pompeo: «uomo morto non morde» (Plutarco). Il diritto di guerra, dicevano, consente di vendicarsi in modo esemplare di un nemico molto crudele, (Cicerone) sì da distogliere tutti gli altri, in futuro, da fare dei torti e dal commettere delle atrocità. Si doveva ritenere più che a bastanza l’aver sbaragliato una volta un nemico con il quale si era combattuto con spargimento di sangue e rischiando la vita, per non esporsi anche al rischio, dopo una vittoria ottenuta al prezzo di tante fatiche e di tanti pericoli di essere costretti a combattere di nuovo. Nè, soggiungevano, i nemici prigionieri, uomini estremamente bellicosi ed intrepidi, debbono esser conservati (Cicerone) a qualche occasione propizia, perché poi ci si penta di aver in realtà conservato in qualche luogo, proprio noi, agli avversari i capi, e alla fortuna gli strumenti per infliggerci una disfatta. E neppure era saggio, per evitare un così grande pericolo, volersi anche prendere, quasi non bastasse il resto, la grave e difficilissima briga di sorvegliare e spiare i nemici dentro la città: una noia, questa, che si poteva viceversa scansare con estrema facilità e al tempo stesso senza andare contro il diritto.

Altri senatori esortavano invece a rimettere in libertà i prigionieri e a lasciarli andar via tutti quanti sani e salvi. (Livio) Fino a quando – dicevano – un nemico pericoloso ed aggressivo non è stato debellato è giusto infierire contro chi ci si dimostri ostile con le armi o con una condotta intollerabile; ma una volta che il nemico è stato sottomesso, deve esser trattato in modo da poter esercitare su di lui il nostro comando, e non per annientare chi già è ridotto alla disperazione. Era poi sconveniente che coloro che mentre combattevano in armi, erano stati risparmiati dalla fortuna o dalla stessa vittoria [Ennio], dopo essere stati sbaragliati, ridotti all’impotenza e fatti prigionieri, fossero a tal punto stimati da macchiarsi, per timore di essi, di crudeltà: un’onta che gli uomini forti sempre hanno fuggito. E di fatti non tanto alla vittoria si sarebbe dovuto aspirare, bensì a quella pace atta a por fine alle guerre. E la pace allora sarebbe stata giusta, utile e duratura, quando fosse stata mantenuta non con la paura, ma con la benevolenza (Virgilio /Cicerone). La vittoria più nobile è quella che distrugge l’inimicizia piuttosto che il nemico. E agli uomini forti si addice di badare, una volta vinto il nemico, a che essi stessi non sembrino di essersi lasciati vincere dall’ira e dal furore (Seneca). Bisogna al contrario sforzarsi di vincolare a noi con i servigi e la clemenza coloro che abbiamo vinto con le armi. E il dovere infine comanda che chi è stato risparmiato dal furore della guerra o da un soldato inferocito non venga soppresso da un cittadino giusto e degno del comando.

Fu espresso anche un terzo parere, molto diverso dai precedenti. Dicono che a proporlo sia stato un Pisano, un tipo malaticcio e assai male in arnese, ma, evidentemente tutt’altro che sciocco. Costui era stato cacciato in esilio e parlò spinto dal desiderio di vendetta. Il suo consiglio fu questo: i prigionieri non andavano né ammazzati né liberati, bensì tenuti in carcere. Ci si doveva rammentare, disse, che i Pisani nutrivano nei confronti dei Genovesi un odio antichissimo e incredibile, e che ben difficilmente il ricordo di così sanguinose sconfitte poteva esser cancellato da un’unica azione generosa: gli animi feroci e in preda all’ira sono assai più propensi alla vendetta che alla riconoscenza per un beneficio ricevuto. «Fino a quando – soggiunse – brillerà nei loro animi una qualche speranza di vendetta vi assicuro che mai poseranno le armi e le contese. Conosco l’intima indole dei miei concittadini. Né, d’altra parte, farete l’interesse del vostro stato mettendoli a morte. Ritengo al contrario utile in primo luogo, che li tratteniate presso di voi quasi mallevadori di pace, qualora decidiate vada ricercata la pace; nel caso invece sovrasti la guerra, aspetterete il momento in cui si rivelino ugualmente utili per ogni evenienza bellica. Questa proposta consente infine di punire in modo esemplare un nemico spietato e di tener conto, al tempo stesso, dei sentimenti di umanità. Siccome tutta la potenza e la forza delle città consiste soprattutto nell’abbondanza delle ricchezze e nell’elevata densità della popolazione, accadrà in questo modo che le risorse dei cittadini Pisani saranno prosciugate dal sostentamento dei prigionieri, e ogni loro futura discendenza verrà impedita. Le loro donne infatti, in quanto mogli di prigionieri, non si possono risposare, né di conseguenza possono aver figli. Dimostrerete pertanto di essere umani generosamente salvando la vita a coloro che hanno attentato con le armi alla vostra vita e al vostro sangue, e al contrario vi rivelerete inflessibili rendendo più debole, con ogni mezzo, un avversario pericoloso e irriducibile».

Piacque l’opinione di costui, e l’effetto fu che Pisa né uscì quasi annientata. Sicché è ormai evidente che un solo uomo e perfino abbietto può, a tempo debito, arrecare l’estrema rovina a tutto uno stato.

da: Roberto Cardini, Mosaici. Il «nemico» dell’Alberti, Roma, Bulzoni Editore, 20042 (Humanistica, 6)