T. Livius, Storie IX 3,4-4,5    testo latino    commento

Neppure, i Sanniti, pur in così fortunata circostanza, sapevano che cosa convenisse fare, perciò deliberarono concordemente di mandare un messaggio ad Erennio Ponzio, padre del comandante supremo, per avere consiglio. Questi, in età già avanzata, si era già ritirato non solo dall’attività militare, ma anche dalla vita politica; tuttavia nel corpo malfermo era ancor vivo il vigore dell’animo e dell’ingegno. Quando apprese che gli eserciti romani erano stati rinchiusi alle Forche Caudine fra le due gole, richiesto di un consiglio dal messaggero del figlio, propose di lasciarli andare tutti senza danno al più presto. Essendo stato respinto questo consiglio, ed essendo stato rimandato un’altra volta lo stesso messaggero a consultarlo, propose di ucciderli tutti fino all’ultimo. Al ricevere questi responsi così contrastanti fra di loro, quasi usciti da un ambiguo oracolo, il figlio, per quanto lui stesso per primo pensasse che ormai anche la mente del padre si era indebolita nel corpo malfermo, tuttavia si lasciò indurre dalle generali insistenze a chiamarlo perché venisse di persona nel consiglio. Si narra che il vecchio non abbia fatto difficoltà a farsi trasportare su di un carro al campo, e che introdotto in consiglio abbia parlato all’incirca in questo modo, nulla mutando della sua opinione, ma solo chiarendone i motivi: seguendo il primo consiglio, che egli riteneva il migliore, per mezzo di un grande beneficio si sarebbe assicurata un’eterna pace e amicizia con un popolo potentissimo; col secondo consiglio si sarebbe evitata la guerra per molti anni, poiché dopo la perdita di questi due eserciti lo stato romano non avrebbe potuto facilmente riprendere l’antica forza; una terza soluzione non vi era. Ma insistendo il figlio e gli altri capi a domandare che cosa ne pensasse, se si adottava una via di mezzo, rilasciando incolumi i Romani ed imponendo loro condizioni conformi al diritto di guerra come vinti, rispose: «Questa soluzione invero è tale che né vi farà degli amici né sopprimerà dei nemici. Salvate pure coloro che avete irritato con un trattamento umiliante: il popolo romano è così fatto da non sapersi rassegnare alla condizione di vinto. Sarà sempre vivo nei loro cuori il ricordo del marchio d’infamia imposto dalla presente necessità, e ciò non darà loro pace fino a quando non vi avranno ripagato con una pena molte volte superiore». Dopo aver viste respinte entrambe le sue proposte, Erennio dal campo fu trasportato in patria.

Intanto negli accampamenti i Romani, falliti molti tentativi per rompere il cerchio, e venendo ormai a mancare ogni cosa, costretti dalla necessità mandarono ambasciatori a chiedere una pace a parità di condizioni: se non l’avessero ottenuta dovevano sfidare il nemico a battaglia. Allora Ponzio rispose che la guerra era ormai decisa, e poiché neppure vinti e prigionieri volevano riconoscere la loro sorte, egli li avrebbe fatti passare sotto il giogo disarmati con una sola veste per ciascuno; le altre condizioni della pace sarebbero state di parità per vinti e vincitori: se i Romani avessero abbandonato il territorio sannita e ritirato le colonie, i Romani e i Sanniti in futuro sarebbero vissuti secondo le proprie leggi, stringendo un patto di alleanza alla pari. A queste condizioni egli era pronto a conchiudere il patto coi consoli; se qualcuna di queste condizioni non era gradita, vietava agli ambasciatori di ritornare da lui.

da: Tito Livio, Storie. Libri VI-X, a cura di Luciano Perelli, Torino, UTET, 1979 (Classici latini)