M. Tullius Cicero, Dei doveri I, XI 34-35, 37    testo latino    commento

Vi sono poi certi doveri che bisogna osservare anche verso coloro che ci hanno offeso. C’è una misura anche nella vendetta e nel castigo; anzi, io non so se non basti che il provocatore si penta della sua offesa, perché egli non ricada mai più in simile colpa, e gli altri siano meno pronti all’offesa. Ma sopra tutto nei rapporti fra Stato e Stato si debbono osservare le leggi di guerra. In verità, ci sono due maniere di contendere: con la ragione e con la forza; e poiché la ragione è propria dell’uomo e la forza è propria delle bestie, bisogna ricorrere alla seconda solo quando non ci si può valere della prima. Si devono perciò intraprendere le guerre al solo scopo di vivere in sicura e tranquilla pace; ma, conseguita la vittoria, si devono risparmiare coloro che durante la guerra, non furono né crudeli né spietati. Così, i nostri padri concessero perfino la cittadinanza ai Tusculani, agli Equi, ai Volsci, ai Sabini, agli Èrnici; ma distrussero dalle fondamenta Cartagine e Numanzia; non avrei voluto la distruzione di Corinto; ma forse essi ebbero le loro buone ragioni, soprattutto la felice posizione del luogo, temendo che appunto il luogo fosse, o prima o poi, occasione e stimolo a nuove guerre. A mio parere, bisogna procurar sempre una pace che non nasconda insidie. E se in ciò mi si fosse dato ascolto, noi avremmo, se non un ottimo Stato, almeno uno Stato, mentre ora non ne abbiamo nessuno.

E se bisogna provvedere a quei popoli che sono stati pienamente sconfitti, tanto più si devono accogliere e proteggere quelli che, deposte le armi, ricorreranno alla fede dei capitani, anche se l’ariete abbia già percosso le loro mura. E a questo riguardo i Romani furono così rigidi osservatori della giustizia che quegli stessi capitani che avevano accolto sotto la loro protezione città o nazioni da loro sconfitte, ne divenivan poi patroni, secondo il costume dei nostri maggiori. E appunto la regolare condotta della guerra è stata scrupolosamente definita dal diritto feciale del popolo romano. Dal quale si può rilevare che non è guerra giusta se non quella che si combatte o dopo aver chiesto riparazione dell’offesa, o dopo averla minacciata e dichiarata.[…] Tanto rigorosa era l’osservanza del diritto anche nella condotta della guerra.

C’è una lettera del vecchio Catone al figlio Marco, nella quale scrive d’aver saputo che egli era stato congedato dal console, mentre si trovava come soldato in Macedonia, nella guerra contro Perseo. L’ammonisce dunque di guardarsi bene dall’entrar in battaglia: «non è giusto – dice – che chi non è soldato, combatta col nemico».

Voglio anche osservare che, chi doveva chiamarsi, con vocabolo proprio, perduellis («nemico di guerra»), era invece chiamato hostis («straniero»), temperando così con la dolcezza della parola l’asperità della cosa. Difatti i nostri maggiori chiamavano hostis quello che noi oggi chiamiamo peregrinus («forestiero»). Ne fan prova le dodici tavole: Aut status dies cum hoste («o il giorno fissato per un giudizio, con uno straniero»), e così ancora: Adversus hostem aeterna auctoritas («Verso lo straniero l’azione giuridica non soggiace a prescrizione»). Che cosa si può aggiungere a una così gran mitezza? Chiamare con un così benigno nome colui col quale si combatte! È ben vero che ormai il lungo tempo trascorso ha reso questo vocabolo assai più duro: esso ha perduto il significato di forestiero per indicare propriamente colui che ti vien contro con l’armi in pugno.

da: Marco Tullio Cicerone, Dei doveri, testo latino, traduzione e note di Dario Arfelli, Bologna, Zanichelli, 1958 (Prosatori di Roma)